martedì, maggio 20, 2008

 

Processo ai pirati del Sudafrica

Questo articolo l'ho scritto per il Manifesto di domenica (18 maggio):

Grazie a una legge del XVIII secolo sui pirati un gruppo di sopravvissuti all'apartheid sfida trenta super-aziende, all'epoca in affari con Pretoria: Shell, Coca-Cola, Ibm... E il processo si farà: troppi giudici della Corte suprema sono anche azionisti di quelle aziende.
I nomi in gioco sono di quelli che fanno tremare i polsi: Shell, Citigroup, Barclays, Coca-Cola, Colgate-Palmolive, Dow Chemical, Exxon Mobil, Ford, Fujitsu. E le svizzere Ubs, Credit Suisse, Holcim, Ems Chemie, Novartis, Nestlé, Unaxis, Sulze. Colossi in grado di piegare alla propria volontà qualunque burocrate, soprattutto se decidono di lavorare insieme. Ma la Corte suprema degli Stati uniti ha spiazzato tutti: le multinazionali (una cinquantina in tutto) potrebbero essere processate dalla magistratura americana con l'accusa di avere di aver violato le leggi internazionali, appoggiando il governo razzista di Pretoria e aggirando l'embargo all'epoca dell'apartheid. Per questo potrebbero essere costrette a pagare 400 miliardi di dollari a cittadini sudafricani vittime delle violenze dell'allora regime.
In precedenza i giudici (insieme alle compagnie, all'amministrazione Bush e all'attuale governo sudafricano) avevano chiesto l'intervento della Corte suprema per fermare il processo, asserendo che la causa avrebbe rischiato di danneggiare le relazioni internazionali e lo sviluppo economico del Sudafrica e punito in modo arbitrario le società coinvolte. Il Dipartimento di Stato Usa si è persino premurato di avvisare i giudici dei «rischi potenzialmente molto gravi di conseguenze negative per gli interessi degli Stati Uniti». Nel suo minority report - l'opinione di minoranza di un giudice in disaccordo con la sentenza - il giudice Edward Korman ha detto di considerare la causa «un insulto al governo post-apartheid, in maggioranza nero, di un popolo libero». Dare ascolto a circa cento vittime in cerca di giustizia, tante sono quelle il cui nome compare sul procedimento legale, avrebbe significato «dare l'impressione che gli Stati uniti non rispettassero la capacità dei sudafricani di amministrare la propria giustizia e che le corti americane potessero essere meglio attrezzate per giudicare il grado di riconciliazione nazionale raggiunto nel paese». «Gli affari sono affari», ha proseguito recentemente Korman: «quelle imprese stavano semplicemente lavorando» (nessuna di esse, in ogni caso, ha sentito la necessità di presentarsi davanti alla Commissione per la libertà e la riconciliazione, al crollo del regime razzista). Korman non è un ultradestro militante: deve la sua notorietà a un famoso conflitto giudiziario tra sopravvissuti dell'Olocausto e banche svizzere, in cui vinsero i primi. Ma il Sudafrica è un'altra cosa.
Chiamata a giudicare, la Corte suprema degli Stati uniti si è però ritrovata senza il quorum necessario, dopo che quattro giudici su nove sono stati costretti a rinunciare al caso per conflitto di interessi: avevano legami (i più vari, dal possedere azioni all'essere familiari di dirigenti) con la Banca d'America, la Bristol-Myers Squibb, la Colgate-Palmolive, il Credit Suisse, Exxon Mobil, Hewlett-Packard, IBM e Nestlé. I supremi magistrati si sono perciò trovati con le mani legate dalle leggi federali, che richiedono che siano almeno sei i giudici che trattano ogni ricorso alla Corte, e non hanno potuto fare altro che attenersi al precedente grado di giudizio. Cioè la sentenza della seconda corte di appello di New York che giudicava ammissibili le denunce (nonostante il giudice Korman). Il processo si farà.
L'iter giudiziario era partito nel 2002, quando alcuni gruppi di privati cittadini e organizzazioni non governative sudafricane, tra cui il «Khulumani support group»" e il «Laywers for the south africans» cominciarono a presentare ricorsi alla giustizia americana a nome di decine di migliaia di sudafricani vittime del regime dell'apartheid, pretendendo dalle multinazionali che facevano affari con il governo razzista risarcimenti per centinaia di miliardi di dollari. Ovviamente si è trattato di un cammino in salita, sia per lo scarso appoggio ricevuto in patria dalle istituzioni (il governo sudafricano si è schierato contro i ricorsi) che per lo strapotere delle multinazionali contro cui avevano deciso di schierarsi.
Gli avvocati avranno ora il non facile compito di dimostrare che le aziende hanno violato leggi internazionali dando assistenza al governo antidemocratico sudafricano. Per poter arrivare a presentare le denunce negli Stati uniti, i legali sudafricani hanno fatto ricorso a un escamotage più volte tentato e mai riuscito negli ultimi quindici anni, quello di fare riferimento a una legge del XVIII secolo, la «Alien tort claims act», che consente agli stranieri di ricorrere alla legge americana per violazioni del diritto internazionale. Quel vecchio provvedimento era stato pensato per essere utilizzato, ironia della sorte, contro i pirati.
La questione rischia di mettere in crisi la politica americana nei confronti di molti governi amici accusati di violazioni dei diritti umani, anche se non è certo il caso del Sudafrica, e sembrano andare in questa direzione anche le parole di Nelson Mandela, che giovedì ha invitato i compatrioti a superare «le divisioni distruttive» che rischiano di riemergere nel paese, invitando i sudafricani a «ricordare l'orrore da cui veniamo». «Non dimenticate - ha detto Mandela nel suo intervento - la grandezza di una nazione che è riuscita a sanare le proprie divisioni, non risprofondiamo in quelle divisioni distruttive».
Gli avvocati sudafricani non cantano ancora vittoria: per ora, dicono, si tratta solo di un ostacolo imprevisto nella strategia della difesa. L'obiettivo ora è quello di convincere il governo della Rainbow Nation ad appoggiare il loro lavoro: Mandela ha ragione ad auspicare che le ferite del passato possano rimarginarsi, ma non tutti sono convinti che sia sufficiente un colpo di spugna.
Immediate (e scontate) anche le reazioni delle multinazionali. UBS, per esempio, la grande banca elvetica chiamata in causa, si è dichiarata «molto delusa» dal fatto che i giudici americani non abbiano ancora messo fine al contenzioso. I vertici del potente istituto di credito rimangono comunque molto fiduciosi e si dicono convinti che le richieste saranno alla fine respinte dai tribunali. Purtroppo, non sono i soli.
La Corte suprema Giudici e (buone)azioni Conflitto di interesse, si ritirano dal caso quattro togati su nove
La Corte suprema degli Stati uniti è composta di nove giudici. Quattro di loro si sono dichiarati in conflitto di interesse rispetto al caso dei giganti economici americani citati in giudizio dai sopravvissuti dell'apartheid. Il motivo è scritto nelle loro dichiarazioni dei redditi.
Nel portafoglio Ibm, Palmolive e Nestlé, oppure il figlio banchiere
Il presidente della Corte suprema, John Roberts, ha azioni della Hewlett-Packard. Il giudice Stephen Breyer possiede titoli di Colgate-Palmolive, Bank of America, Ibm e Nestlè. L'ultimo arrivato, Samuel Alito, nel suo pacchetto possiede Bristol-Myers, Squibb e Exon-Mobil. E il giudice Anthony Kennedy si è dichiarato in conflitto di interesse probabilmente perché (i giudici non sono tenuti a spiegare i motivi) suo figlio è un banchiere del gruppo Credit Suisse.

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