sabato, settembre 13, 2008

 

Steve Biko

"Essere neri non dipende dal colore della pelle. Essere neri è il riflesso di un atteggiamento mentale. La filosofia della Black Consciousness esprime l'orgoglio e la determinazione dei neri. Al cuore di questo modo di pensare c'è la presa di coscienza da parte dei neri che l'arma più potente nelle mani degli oppressori è la mente degli oppressi". (da un discorso di Steven Bantu Biko)

"Il cantante Peter Gabriel gli dedicò una canzone sulle cui note anche l’arcivescovo anglicano e premio Nobel per la pace, Desmond Tutu, non seppe trattenere le lacrime e il suo volto campeggia ancora sulle t-shirt della gioventù sudafricana. E' Steven Bantu Biko, fondatore, nel 1970 in Sudafrica, del “Black Consciousness Movement”, il “Movimento per la coscienza nera”, e attivista simbolo della lotta all’apartheid": così lo ricordava l'anno scorso, per il XXX anniversario della sua morte, avvenuta il 12 settembre del 1977, la Radio Vaticana, aggiungendo: "Biko morì nel corso di un trasferimento da una prigione ad un’altra. Inizialmente le autorità sostennero che non era sopravvissuto allo sciopero della fame. Alcuni giornalisti riuscirono però a provare che la sua morte era stata causata da trauma cranico e la scoperta provocò l’indignazione della comunità internazionale, che per la prima volta adottò delle sanzioni contro il regime dell’apartheid". Per il XXXI anniversario, ecco una versione quasi integrale (se si esclude una minima riduzione) di un articolo scritto da Pier Maria Mazzola nel 2006 per il mensile "Africa" dei Padri Bianchi:

Lo scorso agosto a Pretoria, da poco ribattezzata Tshwane (Siamo tutti uguali), moriva un uomo che aveva avuto una visione chiara della tortura. «Nessuno ti dirà mai qualcosa senza tortura, te l’assicuro io. È come suonare il piano: usi i tasti neri e i tasti bianchi per tirarne fuori una dolce melodia». Quell’uomo dall’animo così musicale si chiamava Gideon Nieuwoudt. Fu lui, con altri aguzzini, a “interrogare” Steve Biko, agli arresti da venti giorni, il 6 settembre 1977 nella stanza 619 del comando di polizia di Walmer, Port Elizabeth. Biko ne uscì irrimediabilmente malconcio. Per gli agenti, era stato un «incidente »: il prigioniero si agitava troppo… era andato a sbattere con la testa contro il muro. Praticamente di sua iniziativa. L’11 settembre venne trovato nella sua cella in condizioni disperate. Si decise di trasportarlo all’ospedale… di Pretoria! Oltre 1100 chilometri che il detenuto percorse di notte, rigorosamente nudo e ammanettato, sul cassone di una Land Rover. Biko morì la notte seguente. Quell’omicidio atroce convinse il Consiglio di sicurezza dell’Onu - con voto unanime - a mettere il Sudafrica sotto embargo militare, un’iniziativa che contribuirà al declino dell’apartheid. L’eroe della lotta contro la segregazione razziale in Sudafrica è lui, Steve Biko, secondo solo a Mandela. Per i giovani, Biko viene anche prima.
Bantu Stephen Biko nacque nel dicembre del 1946, nella provincia del Capo Orientale. Dopo gli studi secondari si iscrisse a medicina all’Università del Natal - sezione separata per i neri, beninteso. Maturava intanto in lui la coscienza politica. Il suo primo impegno fu con l’Unione nazionale degli studenti sudafricani (Nusas). Ma nel 1969 se ne staccò per fondare l’Organizzazione degli studenti sudafricani (Saso). Nella Nusas militavano anche giovani bianchi, la loro presenza era preponderante, Biko si convinse presto della necessità di uno spazio dove i neri in quanto tali si valorizzassero in modo autonomo. Prendeva corpo la Black Consciousness: la “Coscienza (o Consapevolezza) nera”. Il giovane Steve aveva annusato lo spirito del tempo, soprattutto quello che soffiava sull’Africa (la negritudine, Kwame Nhrumah, Amílcar Cabral…), sugli Stati Uniti (Malcolm X, il Black Power e la Black Theology…), sull’America Latina (Paulo Freire e la sua pedagogia degli oppressi). «Per “Coscienza nera” - spiegava Biko - io intendo la rinascita politica e culturale di un popolo oppresso. Ora i neri in Africa sanno che i bianchi non saranno conquistatori per sempre. Questa scoperta li conduce a porsi la domanda: “Chi sono io? Chi siamo?”.
La sfida della decolonizzazione è stata condivisa dai bianchi liberali. Per qualche tempo si sono comportati come portavoce dei neri. Ma poi qualcuno di noi ha cominciato a chiedersi: “Possono forse i nostri amici liberali mettersi al posto nostro?”. La nostra risposta fu: “No!... Finché i bianchi liberali sono i nostri portavoce, non ci sarà nessun portavoce nero”». Da qui all’accusa di razzismo (alla rovescia), il passo era breve. Ma Biko non si lasciò spiazzare: «Ancora oggi - confessava nell’anno della sua morte - noi siamo accusati di razzismo. È un errore. Noi sappiamo che tutti i gruppi interrazziali in Sudafrica hanno rapporti nei quali i bianchi sono superiori, i neri inferiori. Così, per cominciare, i bianchi devono rendersi conto di essere solamente “umani”, non superiori. La stessa cosa per i neri, che devono rendersi conto di essere umani, non inferiori. Per tutti noi questo significa che il Sudafrica non è europeo, ma africano». Grido di libertà è un film che il regista Richard Attenborough (quello di Gandhi) ha costruito proprio sull’amicizia di Biko (la prima interpretazione importante di Denzel Washington) con un giornalista, un bianco liberale. È grazie a lui, del resto, che sappiamo molte cose di Biko, affidate a un libro di memorie. Per Donald Woods (questo il suo nome), che pagò con l’esilio il suo rapporto con Biko, «l’amico che più apprezzavo era un uomo speciale, straordinario. Nei tre anni che lo conobbi, non ebbi mai il minimo dubbio che fosse il leader più importante dell’intero paese. Era saggio, pieno di humour, compassionevole, brillante, altruista, modesto, coraggioso. Il governo non ha mai capito quanto Biko fosse uomo di pace. Il suo costante obiettivo era la riconciliazione pacifica di tutto il Sudafrica».
Nel 1972 Steve Biko è tra i fondatori della Black Peoples Convention, federazione di una settantina di gruppi che si riconoscono nella filosofia della coscienza nera. In questo ambiente si prepararono le manifestazioni di protesta di Soweto, la township di Johannesburg teatro, il 16 giugno 1976, di una durissima repressione della polizia. Quel giorno vennero massacrati almeno cento neri. La rivolta dilagò per il paese e in un anno si contarono un migliaio di vittime. Moltissimi i giovani, anche bambini. Non era difficile, per il regime, collegare il nome di Biko alla rinnovata consapevolezza che sosteneva la gioventù nella lotta contro l’apartheid. Biko non fece mai parte dell’African National Congress (Anc), il movimento storico - quello di Nelson Mandela - che dal 1912 convogliava l’ansia di riscatto della maggioranza nera. Per il leader studentesco, l’Anc era in un certo senso troppo “moderato”, anche se aveva poi fatto la scelta, non condivisibile per un nonviolento come Biko, di costituire un braccio armato. Ma prima del suo arresto definitivo, Biko stava preparandosi, come ricorda lo stesso Mandela, a un incontro segreto con Oliver Tambo, il successore di Lutuli alla presidenza dell’Anc. Di quella nascente alleanza il governo aveva sicuramente paura. Forse, anche per questo Biko venne ammazzato. Ammazzato? «Biko vive!», gridano ancora i graffiti dai muri delle periferie sudafricane.
(Fonte: Misna)

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